(STATI UNITI, 1972)
Presentata nell’aprile del 1972 da Edwin Land, il fondatore di Polaroid, la SX-70 è una delle macchine fotografiche più iconiche della storia della fotografia.
È in corso il meeting annuale di Polaroid e Land sale sul palco per presentare una grande novità. Indossa un giaccone e infila la mano nella tasca interna sfilando uno strano oggetto che nessuno riconosce come quello che è: una macchina fotografica richiusa su se stessa, in grado di scattare e sviluppare foto automaticamente, grazie ad un nuovo sistema evoluzione di quello già inventato da Polaroid diversi anni prima. Land la apre e scatta cinque foto in sequenza impiegando una decina di secondi in tutto: è tutto incredibile per quell’epoca. Un effetto sorpresa che ci ricorda i keynote di Apple, ma una trentina di anni prima.
La macchina chiusa occupa poco spazio e non teme urti: si apre in un attimo con un gesto semplice e al tempo stesso magico, diventando una SLR (Single-Lens Reflex) a tutti gli effetti, con mirino ottico e lente in vetro.
Guardando nel suo mirino potete vedere esattamente quello che verrà impresso nella pellicola, grazie ad prisma spezzato che riflette l’immagine nel mirino e al tempo stesso lascia che venga impressa nella pellicola a pacchetto di Polaroid.
Poter inquadrare con precisione non è il solo vantaggio per chi fotografa con una SX-70: è presente anche una lente in vetro (e non in plastica come gran parte dei modelli prodotti prima e dopo) e anche un’altra funzione davvero utile, la possibilità di mettere a fuoco manualmente mentre si inquadra, attraverso una comoda rotella e degli indicatori all’interno del mirino ottico.
La messa a fuoco manuale in particolare ne fa la macchina più ricercata e amata da chi scattava e scatta su Polaroid: non dover ricorrere al fuoco fisso permette di avere finalmente scatti definiti o messe a fuoco particolari, una caratteristica per niente scontata nel mondo della fotografia istantanea.
È inoltre presente un esposimetro che permette di controllare l’esposizione: di base è automatica, ma tramite una ghiera è possibile sovraesporre o sottoesporre, altra caratteristica che permette di ottenere scatti particolari e che ne fa una macchina perfetta per chi sa cosa sta facendo mentre scatta.
Era possibile aggiungere un sistema flash collegando nella parte superiore del corpo una “Flash Bar” che includeva cinque o dieci lampadine monouso.
Il modello che vedete in queste pagine è il Model 1, il primissimo modello presentato nel 1972, ma ne esistono diverse varianti che ne condividono l’estetica generale e il meccanismo di apertura, ma introducono nuove funzionalità come la possibilità di mettere a fuoco più facilmente grazie ad un vetrino ad immagine spezzata, o addirittura uno dei primi sistemi di messa a fuoco automatica grazie all’utilizzo di un piccolo sonar montato sopra alla lente (SX-70 Sonar OneStep del 1978 e SLR 680 del 1982) oppure un flash integrato al posto del supporto per le Flash Bar.
Il corpo della macchina è realizzato in polisolfone (o polieteresolfone, PSU PESU PES) un materiale termoplastico ad elevata robustezza che veniva placcato in rame-nichel-cromo per dargli un aspetto metallico. I modelli successivi (Model 2, Model 3) hanno il corpo in ABS di color avorio o ebano.
Per tutti questi motivi la SX-70 è stata adorata dai più grandi fotografi: Ansel Adams, Andy Warhol, Helmut Newton e Walker Evans l’hanno utilizzata per i loro scatti e ancora oggi è ricercatissima da fotografi e collezionisti.
Nonostante il costo molto elevato di lancio (180 dollari, equivalenti a 1260 dollari di oggi) la SX-70 vendette oltre 700 mila pezzi nei suoi primi due anni di vita, un successo strepitoso per l’azienda.
Insieme alla macchina fu introdotto un nuovo sistema di pellicole a pacchetto, anch’esso nominato SX-70, che introduceva molte novità e sarebbe stato la base del sistema 600 che ha poi reso davvero famosa Polaroid negli anni ottanta e novanta.
Questo nuovo sistema faceva passare attraverso due rulli ogni pellicola che ne comprimevano un sacchetto posto nella parte inferiore che conteneva il liquido di sviluppo, distribuendolo sulla parte impressa nella parte superiore.
La classica foto Polaroid che abbiamo in testa tutti ha proprio quella parte inferiore pronunciata: è proprio il serbatoio che ho appena descritto e che ha reso riconoscibile ogni foto e veniva utilizzato magari per scrivere qualcosa legato allo scatto.
Il pacco di pellicole SX-70 conteneva dieci pellicole e includeva anche una piccola batteria da 6 volt (“PolaPulse”) che serviva ad alimentare la macchina appunto per dieci scatti. Per questo ogni SX-70 non era equipaggiata di una sua batteria interna, ma utilizzava di volta in volta quella presente in ogni ricarica di scatti.
Ogni foglio era grande 108×88mm e l’area sviluppata per la foto era un quadrato di 77×77mm. La sensibilità della pellicola era di circa ISO 160.
Nel 1978 arriverà il nuovo sistema a pellicole Polaroid 600 che mantiene lo stesso sistema a pacchetto con batteria integrata e le stesse dimensioni, ma aumenta la sensibilità fino a circa ISO 640 rendendo più facile gli scatti con meno luce e diventando lo standard per Polaroid per i decenni successivi, praticamente fino alla fine ad inizio anni duemila.
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