Sono da poco passate le undici di sera e non ho sonno. Ho appena fatto il check-in nel mio hotel ad Asakusabashi dopo una giornata lunghissima. Hai presente quando sei molto stanco, ma non hai voglia di dormire? Ecco.
Poi c’è Tokyo fuori e anche se piove mi va di farci un altro po’ all’amore. Mi metto un paio di jeans e una maglietta e scendo, sperando che abbia smesso di piovere.
Ovviamente non ha smesso. Anzi, piove più di quando sono arrivato. Non ho un ombrello, né mi sono messo il mio impermeabile. Penso di fumare una sigaretta fuori dalla hall e rientrare, non è serata per fare una passeggiata.
Ma Tokyo chiama. Le viuzze attorno all’hotel sono deserte e cade una pioggia fitta che attutisce tutti i rumori e ha quel buon odore di passeggiata. Comincio a camminare in cerca di un combini, potrei prendere qualche snack, una bibita strana o non so, vedere qualcuno, anche solo il commesso. Tanto qua non è possibile camminare più di cento metri senza incontrare un combini, vado sul sicuro.
Cerco di sfruttare ogni terrazzo o tettoia per ripararmi. Una ragazza fuma una sigaretta fuori dal retro di un ristorante mentre qualcuno fa un gran rumore chiudendo una saracinesca. Ora sono bagnato davvero, non fa freddo, ma non mi voglio ammalare, ho ancora qualche giorno da passare in viaggio.
Fermo sotto l’androne di un condominio mi guardo in giro e vedo una insegna famigliare. C’è un Lawson dietro l’angolo: non avevo dubbi che avrei trovato un combini senza camminare troppo.
Dentro c’è il solito gelo e tanta luce, troppa. Non so che prendere mentre il commesso indiano mi guarda da sopra la sua mascherina. C’è della musica anni cinquanta in sottofondo che rende tutto surreale e mi ricorda una avventura grafica, come si chiamava?
Prendo una bottiglia di acqua alla pesca. Hai mai bevuto l’acqua alla pesca giapponese? Hai presente quando mangi una pesca e ti lascia in bocca quel buon sughino ad ogni morso? Ecco, uguale, ma mezzo litro. Pago ed esco.
Il Lawson ha un po’ di tettoia, ma sono davanti all’ingresso e se rimango qui la porta automatica rimane aperta. Mi sposto da una parte cercando di rimanere vicino alla vetrina per ripararmi un po’ dalla pioggia. Rimango li a chiedermi cosa fare, piove ancora a dirotto. Un paio di clienti escono e mi guardono. Mi sento un po’ in imbarazzo, senza motivo.
Abbasso lo sguardo e lo vedo. In un porta ombrelli di fianco all’ingresso c’è un ombrello solitario. Dentro al combini non c’è più nessuno, quindi qualcuno deve averlo dimenticato qua. Forse i due di prima? Ormai sono spariti.
Io sono bagnato fradicio e non so neanche quanto distante sia l’hotel. Ho in mano mezza bottiglia di acqua alla pesca e il videogame in cui comincio ad immaginare di essere finito mi ha appena fornito un nuovo oggetto da mettere nell’inventario. Un ombrello, che ora mi servirebbe proprio.
Ha un bel manico invitante. Lo prendo e mi incammino veloce, sperando che il commesso non mi abbia visto. Lo apro ed è enorme, accogliente. Che bell’ombrello. Rallento il passo e mi godo la notte continuando a camminare a caso.
Negozi solitari, lampioni gracchianti, insegne sovraesposte. Sembra piova meno ora, ma magari è solo perché adesso ho un ombrello a ripararmi. Qualcuno sta lasciando l’auto in uno di quei parcheggi automatici e aspetta che un grande ascensore la porti chissà dove.
Ho ancora in mano la bottiglia di acqua alla pesca, vuota. Ma non ci sono bidoni a Tokyo. Non ci sono bidoni per strada in Giappone. Non sai mai dove buttare le cose. Mi viene in mente però che quasi ogni distributore di bibite, che sono ovunque, ha di fianco un bidone speciale, con quei buchi tondi dove entrano solo le bottiglie di plastica e le lattine.
Eccone uno, ed ecco il bidone. Butto la bottiglia e mi accorgo che di fianco c’è anche una di quelle cabine per farsi le fototessere. Assecondo gli eventi.
È evidente che devo farmi una foto con l’ombrello.
Entro nella cabina, è microscopica e sgocciolo tutto mentre cerco di chiudere l’ombrello litigando con la tendina. Una voce giapponese blatera qualche benvenuto che non capisco. Farsi una foto replicata quattro volte costa 800¥, non poco, ma neanche una follia. Inserisco mille yen, seguo le istruzioni e mi faccio una foto col mio nuovo migliore amico.
Comincio a pensare che sarebbe ora di tornare in hotel, domattina mi devo svegliare presto. Tocco l’Apple Watch e Topolino mi dice che è mezzanotte in punto. Aggiunge un “buonanotte” che mi sembra più un ordine che un augurio.
Riapro l’ombrello e mi incammino sotto la pioggia. Giro l’angolo e c’è lo stesso combini di prima. Ho girato in tondo probabilmente, oppure i programmatori di questa nottata non avevano voglia di modellare altre strade e sono vittima di un effetto Pac-Man.
Mi sembra logico che devo rimettere l’ombrello a posto per riuscire ad uscire da questa situazione. Arrivo fino al combini e guardo dentro: non c’è ancora nessuno e il commesso indiano fissa il vuoto. Rinfilo l’ombrello nel porta ombrelli, cercando di ricordare il buco giusto.
Non succede niente di particolare, ma forse, da qualche parte, un gatto ha camminato due volte nello stesso punto e qualcuno ha avuto un deja-vu.
Non piove quasi più. Apro Google Maps e cerco di capire come tornare al mio hotel. Ovviamente è vicinissimo. Corro per un paio di isolati e ritorno in camera.
Mentre mi metto a letto comincio a pensare di avere immaginato tutto. Riaccendo la luce e infilo la mano nella tasca dei jeans appoggiati ad una sedia. Estraggo una foto: io e il mio amico abbiamo davvero passato una serata a Tokyo insieme.
I RACCONTI DEGLI TSUKUMOGAMI
Ho incontrato uno Tsukumogami a Tokyo. Spero di incontrarne altri nei miei prossimi viaggi.
- Cos’è uno Tsukumogami (wikipedia.org)
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